Ventimiglia, libreria Casella
Chiude la storica libreria Casella. Lì ho comprato tutti i libri di scuola, fino al liceo.E anche i primi romanzi. Mi picco sempre di non avere nostalgia di niente, ma pensando a quei tempi, un attimo mi prende, solo un attimo. Mi dispiace molto per l'amico Diego Marangon che, assieme a Tanja, era uno dei titolari e motore di molte iniziative culturali che seguivo se pur da lontano. Spero che questa sua attività non si interrompa. Un grande abbraccio.
Qualche settimana fa si è svolto un convegno di due giorni (uno a San Biagio e uno a Imperia) dal titolo "L'uomo che sorrise a Brassens" su Elio Lanteri, uno scrittore della mia terra del tutto anomalo e mio amico. Non potendo intervenire di persona ho mandato questo mio breve ricordo. QUI un video.
Conobbi Elio al Bar Irene di Ventimiglia. Contiguo alla Camera del Lavoro dove lavorava questo bar era il crocicchio vivace di tutta la sinistra. Partitica ed extra. E non sempre le discussioni tra le due anime erano pacate. Come si vede niente è cambiato, e niente il tempo ha insegnato. Anzi, adesso è molto peggio di allora.
Elio faceva la spola tra l'ufficio e il bar. Credo che riempire moduli e far andare avanti pratiche non gli andasse molto a genio, lui il suo genio lo dedicava più alla cultura, e soprattutto alla letteratura. Io scendevo da Isola con il mio Benelli (che tuttora conservo) e facevo capolino nell'ufficio, lui da dietro il bancone mi diceva «Aspeita, arivu». E mi infilavo nel locale dove prima che arrivasse poteva passare qualche minuto o anche un'ora. In quell'ora magari spuntava per un attimo solo per dire "arivu, arivu". Ma non ero impaziente e non m'annoiavo. Leggevo o conversavo con qualcuno della variegata compagnia che frequentava quel posto.
Quando arrivava, la domanda, diventata quasi retorica, era la solita «Ti me u paghi ün cafè?». Mentre veniva portato il caffè lui aveva già cominciato a raccontarmi dell'ultimo libro che aveva letto e che gli era tanto piaciuto. Spesso autori per me sconosciuti trovati chissà dove, chissà come. Forse lo aiutava in questa rabdomanzia Adriana, che nel frattempo aveva cominciato a tradurre testi dallo spagnolo. Ma non solo libri, anche arte. Fiorivano allora piccoli progetti per piccoli viaggi culturali in Francia che ogni tanto si realizzavano. Le fantasie sue si incrociavano con le mie ed era un po' come avere sogni condivisi.
Spesso compariva anche Francesco Biamonti. Tutti sapevamo che stava scrivendo un romanzo, non so da quanto tempo. Io sinceramente credevo che stesse aspettando Godot. Poi finalmente arrivò "L'angelo di Avrigue" e mi ricredetti. Oh se mi ricredetti.
Come avete già sentito Elio ed io parlavamo in dialetto, ma con Francesco parlavamo in Italiano, chissà perché. E quando lui entrava nelle nostre conversazione lo spessore cresceva, perché i suoi riferimenti culturali, soprattutto di pittura, arricchivano l'argomento di nuove e inaspettate prospettive. La sua non era erudizione ma conoscenza appassionata.
Finito il liceo andai a Torino a frequentare l'università, e quindi con Elio mi vedevo meno, ma rimanemmo sempre in stretto contatto. Era il '68, e in quella città tutto era incominciato con Palazzo Campana. Voleva che lo informassi nei dettagli e lui mi ricambiava dandomi notizie di prima mano su cosa succedeva in Francia dove aveva contatti diretti. Malgrado la differenza d'età eravamo come due coetanei.
Un giorno, nella casa di via Rovigo 22 dove abitavo assieme a tre amici liguri arrivò una sua telefonata, di quelle che rimangono impresse. Mi ricordo ancora quell'apparecchio telefonico rosso su quella libreria gialla e nera. Elio quella volta mi parlò in italiano «Il pacco è arrivato, scendi». E scesi.
Si trattava di un'operazione segreta organizzata da uno dei fondatori del giornale francese "Liberation" di cui non faccio il nome. Il pacco consisteva in quattro Tupamaros, tra cui una ragazza, che dovevamo portare clandestinamente dalla Francia all'Italia. Avevano scelto me perché frequentavo assiduamente le montagne, anche se quella che dovevamo attraversare, il Grammondo, come montagna non era un granché. Tutto filò liscio. Dormimmo nella piccola casa di Elio a Vallecrosia e il giorno dopo accompagnai in treno a Torino i guerriglieri sudamericani. Avevano un appuntamento, vatti a sapere con chi, davanti all'hotel Hilton in corso Vittorio. Ci abbracciammo a Porta Nuova, e i nostri destini che si erano uniti per il tempo di due giorni si separarono per sempre.
Poi mi trasferii a Milano e dopo la fiammata del Settantasette vennero anni cupi. Con Elio ci vedevamo sempre meno e quando andò in pensione e si ritirò a Costa d'Oneglia ci perdemmo di vista. Ogni tanto mi arrivavano notizie su di lui da amici comuni, ma vederci mai.
Ci rincontrammo finalmente proprio qui a San Biagio, per la presentazione del suo La ballata della piccola piazza. Mi emozionai un po' quando lo vidi, perché dopo tanto tempo era rimasto quel ragazzo che sembrava allora, e per un momento fece ridiventare ragazzo anche me.
Conobbi Elio al Bar Irene di Ventimiglia. Contiguo alla Camera del Lavoro dove lavorava questo bar era il crocicchio vivace di tutta la sinistra. Partitica ed extra. E non sempre le discussioni tra le due anime erano pacate. Come si vede niente è cambiato, e niente il tempo ha insegnato. Anzi, adesso è molto peggio di allora.
Elio faceva la spola tra l'ufficio e il bar. Credo che riempire moduli e far andare avanti pratiche non gli andasse molto a genio, lui il suo genio lo dedicava più alla cultura, e soprattutto alla letteratura. Io scendevo da Isola con il mio Benelli (che tuttora conservo) e facevo capolino nell'ufficio, lui da dietro il bancone mi diceva «Aspeita, arivu». E mi infilavo nel locale dove prima che arrivasse poteva passare qualche minuto o anche un'ora. In quell'ora magari spuntava per un attimo solo per dire "arivu, arivu". Ma non ero impaziente e non m'annoiavo. Leggevo o conversavo con qualcuno della variegata compagnia che frequentava quel posto.
Quando arrivava, la domanda, diventata quasi retorica, era la solita «Ti me u paghi ün cafè?». Mentre veniva portato il caffè lui aveva già cominciato a raccontarmi dell'ultimo libro che aveva letto e che gli era tanto piaciuto. Spesso autori per me sconosciuti trovati chissà dove, chissà come. Forse lo aiutava in questa rabdomanzia Adriana, che nel frattempo aveva cominciato a tradurre testi dallo spagnolo. Ma non solo libri, anche arte. Fiorivano allora piccoli progetti per piccoli viaggi culturali in Francia che ogni tanto si realizzavano. Le fantasie sue si incrociavano con le mie ed era un po' come avere sogni condivisi.
Spesso compariva anche Francesco Biamonti. Tutti sapevamo che stava scrivendo un romanzo, non so da quanto tempo. Io sinceramente credevo che stesse aspettando Godot. Poi finalmente arrivò "L'angelo di Avrigue" e mi ricredetti. Oh se mi ricredetti.
Come avete già sentito Elio ed io parlavamo in dialetto, ma con Francesco parlavamo in Italiano, chissà perché. E quando lui entrava nelle nostre conversazione lo spessore cresceva, perché i suoi riferimenti culturali, soprattutto di pittura, arricchivano l'argomento di nuove e inaspettate prospettive. La sua non era erudizione ma conoscenza appassionata.
Finito il liceo andai a Torino a frequentare l'università, e quindi con Elio mi vedevo meno, ma rimanemmo sempre in stretto contatto. Era il '68, e in quella città tutto era incominciato con Palazzo Campana. Voleva che lo informassi nei dettagli e lui mi ricambiava dandomi notizie di prima mano su cosa succedeva in Francia dove aveva contatti diretti. Malgrado la differenza d'età eravamo come due coetanei.
Un giorno, nella casa di via Rovigo 22 dove abitavo assieme a tre amici liguri arrivò una sua telefonata, di quelle che rimangono impresse. Mi ricordo ancora quell'apparecchio telefonico rosso su quella libreria gialla e nera. Elio quella volta mi parlò in italiano «Il pacco è arrivato, scendi». E scesi.
Si trattava di un'operazione segreta organizzata da uno dei fondatori del giornale francese "Liberation" di cui non faccio il nome. Il pacco consisteva in quattro Tupamaros, tra cui una ragazza, che dovevamo portare clandestinamente dalla Francia all'Italia. Avevano scelto me perché frequentavo assiduamente le montagne, anche se quella che dovevamo attraversare, il Grammondo, come montagna non era un granché. Tutto filò liscio. Dormimmo nella piccola casa di Elio a Vallecrosia e il giorno dopo accompagnai in treno a Torino i guerriglieri sudamericani. Avevano un appuntamento, vatti a sapere con chi, davanti all'hotel Hilton in corso Vittorio. Ci abbracciammo a Porta Nuova, e i nostri destini che si erano uniti per il tempo di due giorni si separarono per sempre.
Poi mi trasferii a Milano e dopo la fiammata del Settantasette vennero anni cupi. Con Elio ci vedevamo sempre meno e quando andò in pensione e si ritirò a Costa d'Oneglia ci perdemmo di vista. Ogni tanto mi arrivavano notizie su di lui da amici comuni, ma vederci mai.
Ci rincontrammo finalmente proprio qui a San Biagio, per la presentazione del suo La ballata della piccola piazza. Mi emozionai un po' quando lo vidi, perché dopo tanto tempo era rimasto quel ragazzo che sembrava allora, e per un momento fece ridiventare ragazzo anche me.
QUI tutte le foto del sabato (261 post).
Bel racconto
RispondiElimina@Francesco
EliminaGrazie.
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RispondiEliminaChe peccato! Anche a me piaceva un sacco quella libreria e vi ho acquistato libri a volte introvabili.
RispondiEliminaE' un peccato che chiudano queste librerie ma è il risultato degli acquisti via internet.
Così sei stato anche passeur…
UN GROSSO ABBRACCIO!
SANDRO
@Sandro
EliminaPasseur sì, ma per ideali non per soldi.
Che tristezza quando chiudono le librerie, belli i racconti degli anni intensi
RispondiElimina@amanda
EliminaAnni intensi che ti segnano.
Carissimo, il racconto che hai scritto mi ha riportato indietro nel tempo quando frquentavo San Biagio della Cima, Castel Vittorio, Pigna e tutta quella zona (anni '80 e anni '90) quando conobbi per caso Francesco Biamonti e forse ho anche conosciuto Elio Lanteri (dovrei andare a vedere le foto del passato).
RispondiEliminaSe non sbaglio ne avevo già parlato in un tuto post tempo fa, perché a Ventimiglia ci passavo spesso quando lavoravo nel sud della Francia e mi dispiace molto che quella libreria (che conoscevo) chiuda i battenti.
Un salutone e un abbraccio
@accadebis
EliminaSì ne avevo già parlato, di Elio voglio dire, e adesso ho messo questo link. Vedo che conosci bene l'entroterra dell'estremo Ponente.
Quando chiude una libreria è sempre una tristezza.
RispondiElimina@Andrea
EliminaCi rimane un vuoto.
Come ti comprendo! Io ho da poco saputo che a Torino chiuderà (forse non si sa ancora molto) la libreria Comunardi. Anch'essa libreria storica della città. E se chiude, ci faranno un supermercato, così mi hanno detto. Deprimente. Abbraccio siempre
RispondiElimina@Farfalla
EliminaNe chiudono dappertutto. Anche a Milano. Deprimente.
Diciamo che sono decenni che si lavora per farle chiudere. I libri nei supermercati, gli acquisti on line...
RispondiElimina@Sara
EliminaCredo soprattutto acquisti online, sempre scontati.
pure il mio libraio parlava in dialetto come elio :)
RispondiEliminabonomia, infilando una battuta dietro l'altra.
buon giorno
@antonypoe
EliminaPerò non era il mio dialetto ligure.
no: parmigiano
EliminaSi, conosco bene la zona. E' stato un periodo molto bello, positivo da tanti punti di vista. Con amici si andava a mangia a Dolceacqua in un ristorantino gestito da un cuoco francese che cucinava benissimo. Oppure si andava sopra Ventimiglia "Ai Due Camini" (se non ricordo male) senza bisogno di svenarsi per pagare il conto. Qualche anno fa sono tornato di passaggio alla stazione di Ventimiglia e ho visto che è tutto cambiato (in peggio mi sembra). Chissà se ci sono ancora i due ristoranti che ho citato in questo commento.
RispondiEliminaUn salutone
La mia ha già buttato giù il bandone da anni ...ora in quei locali c'è GameStop
RispondiElimina..che schifo :(
@ReAnto
EliminaE c'è chi lo chiama progresso.
davvero un peccato, rimaniamo inermi davanti alla chiusura di molte librerie, andrebbero sostenute e invece...
RispondiElimina@Ernest
EliminaNessun governo ha avuto un minimo di sensibilità per le librerie.