Tutto quello che ho sempre voluto fare
è dipingere la luce del sole
sul lato di una casaE così ieri pomeriggio dopo aver attraversato piazza duomo illuminata da una pacata luce novembrina mi sono immerso per due ore in altre luci all'interno di Palazzo reale.
Quelle che mi hanno restituito le 160 opere di Edward Hopper, padre del Realismo Americano, in una mostra antologica non del tutto esaustiva ma più che sufficiente a ripercorrere l'avventura artistica di questa icona degli Stati Uniti.
Un percorso visivo suddiviso in sette sezioni, che attraversa la varietà di stili e tecniche che l'artista ha affrontato durante la sua carriera (bozzetti, dipinti ad olio, stampe ad acquaforte, acquarelli), accompagnato da un ottimo corredo bibliografico e storico che aiuta a contestualizzare i lavori nella realtà americana della prima metà del '900.
Scorci di vita della middle class, spesso spiati, che mettono lo spettatore nei panni di un vicino di casa curioso, quasi un guardone. Scorci di tavole calde dalle quali s'intravvedono persone avvolte nel loro silenzio, paesaggi dal forte impatto cromatico e talvolta dall'improbabile punto di vista , autoritratti, parecchi autoritratti.
Ho cercato di penetrare questa luce, ora sopraffatta dall'ombra, ora quasi sgargiante, e una cosa ho percepito. C'è in ogni quadro un punto o una piccola zona, o una serie di zone, righe per esempio, che catalizzano nel loro chiarore la vita di tutta l'immagine e ci restituiscono la sensazione vibrante che forse fu l'idea che mosse Hopper a quel dipinto. Partendo da lì, a ritroso, ho ripercorso la storia narrata nel quadro, con finale sempre in sospeso.
Uno se ne esce, e riaffronta la convulsa vita metropolitana, ma qualcosa ti è rimasto dentro, subito allo stato di coscienza e poi, col tempo, allo stato più profondo, in quelle aree meno insondabili e incontrollabili del nostro essere. E' l'arte e la sua universalità.