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domenica 2 settembre 2007

Ermanno Olmi, la crisi del cinema italiano è la crisi della nostra società

Partito da questo articolo di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera e poi proseguito con gli interventi di Lizzani e Bellocchio su Repubblica il dibattitito sulla crisi del cinema italiano continua. Non mi sembra quest'anno la querelle di stagione, prima del Festival di Venezia, perché vengono buttati sul tappeto tutti i guai di questa nostra Italia ormai senza bussola, al di là del cinema.

Pubblico integralmente, anche se la lunghezza non è proprio da blog, l'intervento di Ermanno Olmi uscito ieri su Repubblica. Stamattina l'editoriale di Scalfari è sullo stesso tema.

Guardatevi l'ultimo paragrafo. Calza a pennello col post precedente. Sullo stesso numero è uscita la pubblicità che ho contestato e l'articolo di Ermanno Olmi. I giornali fagocitano ma non metabolizzano.

ERMANNO OLMI

Caro direttore, quando è uscito il mio ultimo film Centochiodi ho annunciato che col cinema narrativo avevo chiuso: ma non è perché il cinema italiano - e non solo italiano - sia in crisi. È tutta la società che in questo momento è in crisi, e non solo quella italiana. Stiamo attraversando un periodo di grandi trasformazioni necessarie per affacciarci a nuove soglie del futuro.

Trasformazioni che non abbiamo del tutto metabolizzato. Uso questo termine, anche se un po' scaduto, ma che mi torna in mente ora per indicare quei particolari momenti della storia in cui necessari e inevitabili cambiamenti creano necessari e inevitabili condizioni di crisi. È un po' come succede con il corpo umano, quando da bambini si diventa adolescenti e il corpo si carica di turbolenze e ancora non si ha la consapevolezza né di essere bambini né di essere adulti. Questa è oggi la nostra società. Così tutte le società “cosiddette” avanzate.

Pensiamo di essere più grandi ma non siamo ancora davvero adulti. Ed è questo che ci mostra il cinema: la condizione della nostra realtà in uno stato piuttosto confusionale e disorientata. E anche il cinema è parte di questa realtà. Ma è da quando ho cominciato la mia avventura nel cinema - e sono oramai più di cinquant'anni - che sento lamenti di crisi del cinema italiano dopo la gloriosa stagione de neorealismo e dei suoi grandi padri. È vero: quei maestri segnarono la scena mondiale del cinema italiano, quello fu il momento più alto del nostro cinema, ma perché? Proprio perché c'erano stati cinque anni di guerra, appunto.

Tragedie e sofferenze comuni che avevano creato un sentimento comune. Anni che furono una scuola poderosa, una scuola che ci costringeva a cercare valori essenziali. Primo fra tutti quello della vita. Eravamo individui in mezzo ad altri individui che avevano fame di pane e civiltà. Ma a quel tempo, tutto era coinciso con la rinascita dalle macerie, con la ricostruzione, con una speranza nuova, col sogno di un mondo più umano, di bella convivenza. È durato poco.

Già nei primi anni Cinquanta si faceva avanti la crisi del contrappasso determinata dal boom economico - così si chiamava - e che alla fine durò un istante. Come sempre, lo slancio della ricchezza cancella le tensioni morale e, per quanto riguarda il grande schermo, spinge anche il cinema verso la commedia - giustamente per carità – e poi, pur con capolavori di grande maestria, verso una spensieratezza che non vuole saperne di nuovi segnali di insofferenze e crisi mondiali. Le guerre “lontane” non ci riguardano.

Ma ecco la morte di Kennedy, il Sessantotto, la Guerra Fredda cova tra le grandi Potenze. Sono cominciati in quegli anni i grandi cambiamenti del mondo e da allora a oggi tutte le nostre società stanno vivendo queste fisiologiche trasformazioni. Che possono anche produrre esiti devastanti, come fu da noi il terrorismo di casa, o come è oggi il terrorismo internazionale.

Dunque trovo che quello che hanno scritto Galli della Loggia sul Corriere della sera o Lizzani e Bellocchio su Repubblica ci sollecita a una giusta considerazione sul cinema. La segnalazione di una crisi – che si intende di inadeguatezza – dei film italiani nei confronti della realtà in cui viviamo. Giusto. Tuttavia la medesima domanda dobbiamo porla alla letteratura, alle arti, alla politica dei nostri governi e all'economia del denaro. Non è forse in crisi questa economia? Quella italiana e non solo? Abbiamo forse un disegno economico che rappresenta l'anelito ideale di questo nostro paese?

Via! I dati che ci fanno vedere sono fasulli. Ma non perché non sanno fare i conti coi numeri. Non sanno fare i conti coi “valori”. Non hanno ancora capito – o non vogliono capire – quanto vale una zolla di terra e un bicchiere di buona acqua. Viviamo da ricchi una condizione di miseria di beni naturali. Ma appena il baraccone delle ambiguità comincerà a scricchiolare, saranno, come si dice a Roma, ... amari.

Il cinema non è un dopolavoro idilliaco dove nel tempo libero si celebrano le smanie artistiche di quattro giovanotti – come eravamo noi del tempo passato. Il cinema di ieri come quello di oggi, vive il sentimento della realtà. Ecco perché il senso di crisi. Non c'entra niente dire che non ci sono più buoni autori. Perché non è vero. Anzi i germogli della nuova generazione ci sono, eccome.

Ho visto il film bellissimo di Giorgio Diritti, Il vento fa il suo giro, e questa è una delle tante conferme. Lo vada a vedere Galli della Loggia: mi ringrazierà. E diciamo anche che quest'anno alla Mostra di Venezia ci sono tre giovani italiani eccellenti che faranno sicuramente onore al nostro cinema, all'arte, al dovere civico.

Per questo, con simpatia e con calore, ribalto la domanda a Repubblica e al Corriere. Forse i giornali italiani stanno davvero rappresentando la realtà italiana? Sono all'altezza del compito che gli compete? O sono vincolati dalla pubblicità e la servono devotamente? Non è anche questo un segno di crisi?


QUI un approfondimento segnalato da un lettore

8 commenti:

  1. Stamani Scalfari imputava la crisi del cinema italiana non a una mancanza di valori, ma a una mancanza di linguaggio. Faceva anche esempi storici per dimostrare la sua tesi. Per conto mio sbaglia. Siamo in un'epoca di grande trapasso, ben più grande di quella che si verificò con l'invenzione della stampa. L'epoca digitale che è appena alla preistoria ci riserverà scenari di tecniche rappresentative che allo stato delle nostre conoscenze è impossibile immaginare. Il "cinema" e nato con la pellicola, un supporto materiale. Potrà essere lo stesso quando tutte le informazioni dell'immagine saranno solo dei bit? Il mezzo, quello che serve alla rappresentazione, non è disgiunto dal linguaggio. Ma questo non c'è ancora.

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  2. "I giornali fagocitano ma non metabolizzano". Dici bene Alberto. Come potrebbero metabolizzare due facciate, quella di sinistra con le favelas sudamericane e l'altra con la pubblicità di Louis Vuitton?

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  3. Ho cercato sulla Rete gli articoli di Lizzani e Bellocchio ma senza risultato. In quanto all'articolo di Ermanno Olmi l'ho trovato solo su questo blog. Potresti essermi d'aiuto?
    Claudio Beretta

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  4. Gli articoli di Lizzani e Bellocchio su Repubblica non sono online altrimenti avrei messo i link. Io li avevo letti sulle edizioni cartacee che ho abbandonato su qualche macchina o su qualche treno. L'articolo di Ermanno Olmi l'ho fatto passare all'OCR. E' un peccato che Repubblica non li abbia messi in Rete.

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  5. eppure le tesi di olmi e scalfari, pur contrapposte, paiono deboli tutte e due.
    Comunque sia sul tema suggerisco la lettura di un paio di pezzi pubblicati su www.leftwing.it

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  6. Link all'intervento di Bellocchio su Repubblica trascritto su un blog

    http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2007/08/

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  7. http://loredanalipperini.blog.kataweb
    .it/lipperatura/2007/08/

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