In riferimento a questo post ricevo dall'amico Marco Grassano e pubblico.
Di Leone Traverso grecista - che è stato legato sentimentalmente a Cristina Campo, fine poetessa e traduttrice anche lei - sono note soprattutto la versione di Pindaro e quella delle tragedie di Eschilo. Quest'ultima traduzione ha una densa, tesa essenzialità e una ricerca formale molto attenta ("Elena: e le navi ella distrusse, e le città, e le genti...", per esempio, dove si riprende il gioco del testo originale sul nome della famosa regina col verbo greco eléin, "distruggere") che la rendono una lettura anche impegnativa, ma notevole.
Sì, Rilke è qui un forse po' greve, con echi curiosamente foscoliani (“Né più mai toccherò le sacre sponde…”) e dannunziani, o modismi alla Dino Campana (“Non so se tra roccie il tuo pallido / Viso m'apparve, o sorriso / Di lontananze ignote / Fosti, la china eburnea / Fronte fulgente o giovine…”).
Ripesco una traduzione forse più letterale dell’intera elegia, dalla quale sembrano emergere invece consonanze col T.S. Eliot maggiore (La Terra Desolata, o i Quattro Quartetti: “Il tempo presente e il tempo passato / sono forse entrambi presenti nel tempo futuro, / e il tempo futuro contenuto nel tempo passato. / Se tutto il tempo è eternamente presente / tutto il tempo è irredimibile”):
"Perché quando è dato di sostenere il breve lasso di tempo
dell’esserci,
come l’alloro un po’ più povero di luce di tutto
l’altro verde, con piccole onde su ogni margine
delle sue foglie (come un sorriso del vento)-: perché allora
dobbiamo sostenere quello che è umano – ed evitando il destino
avere nostalgia del destino?
Oh, non perché sia felicità,
questo affrettato giovamento di una vicina perdita.
Non per curiosità o per addestramento del cuore,
che anche nell’alloro sarebbe…
Ma perché molto è essere qui, e perché questo
luogo sembra aver bisogno di noi, questo luogo
Che svanisce, che ci riguarda. Di noi, che svaniamo più
Di tutto.
Ogni cosa una volta, una volta soltanto. Una volta e mai più.
Ed anche noi una volta. Mai di nuovo. Ma questo
Essere stati una volta, pur solo una volta:
essere stati terreni, appare inappellabile.
E così noi ci agitiamo e vogliamo finirlo,
vogliamo trattenere nelle nostre semplici mani,
nello sguardo sovrabbondante e nel cuore senza parole.
Questo vogliamo diventare .- A chi darlo? Meglio
Serbare tutto per sempre…Ah, in diversa relazione,
ahimé, che cosa portiamo al di là? Non lo sguardo,
che qui lentamente apprendemmo, e neanche nessun
accadimento del qui. Nessuno.
Dunque le sofferenze. Dunque, prima di tutto l’essere peso,
dunque la lunga esperienza dell’amore,- dunque
il gridato indicibile. Ma più tardi,
sotto le stelle, ciò che si deve: esse sono indicibili al meglio.
Ma il viandante non porta anche dal pendio della sporgenza del monte
Una mano piena di terra a valle, che per tutti è indicibile, bensì
Una parola appresa, pura, la gialla e azzurra genziana. Forse noi
Siamo qui forse per dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta,
finestra; al più
colonne, torre…ma per dire, capisci,
oh, per dire così, come mai le stesse cose
capivano d’essere intimamente.
E non è un segreto accorgimento
Di questa muta terra, se essa spinge gli amanti
Ad essere incantati dal loro sentimento per ogni cosa?
Soglia: come è lieve per due
Amanti è consumare la propria vecchia soglia,
anch’essi, dopo i molti prima di loro e
i molti a venire.
Qui è il tempo del dicibile, qui è la sua casa.
Parla e riconosci. Più che mai le cose
Precipitano, quelle esperite, perché
È un fare senza immagine che le sostituisce una volta svanite.
Un agire sotto le croste, che docilmente vanno in pezzi, quando
Nell’intimo l’agire si spiega e si pone nuovi limiti.
Tra martelli esiste il nostro cuore
Come la lingua tra i denti, che pure
rimane predisposta all’elogio.
Loda l’angelo il mondo, non l’indicibile, dinanzi a lui
Non puoi torreggiare di magnifico sentire; nell’universo,
dove egli sente con un sentire più grande, tu sei un novizio. Mostragli
le cose semplici, che vanno di generazione in generazione,
come fossero nostre, vicino alla mano ed allo sguardo.
Dì a lui le cose. Egli sosterà stupito; come tu stupisti
Davanti al cordaio di Roma o al vasaio del Nilo.
Mostragli, come può essere felice una cosa, senza colpa e nostra,
come lo stesso dolore che fa gemere si dischiude puro alla forma,
e serve come cosa, o muore quando diventa cosa-, e beata va
oltre il violino. – E queste, le cose viventi nel trapassare capiscono
che tu le lodi; provvisorie, esse confidano in noi, i più passeggeri, la salvezza.
Vogliono, che noi le commutiamo nell’invisibile cuore o – infinitamente –
Dentro di noi. Chi noi siamo anche alla fine.
Terra non è questo che vuoi? Invisibile
Esistere in noi? – Non è il tuo sogno
Essere una volta invisibile? – Terra! Invisibile!
Che cosa, se non il cambiamento, è il tuo urgente compito?
Terra, tu amata, io voglio. Oh credi, non è più necessario
Alle tue primavere ottenermi per te-, una,
una soltanto, è già troppo per il sangue.
Senza nome, da tanto, a te mi sono dato:
sempre tu eri nel giusto, e la tua sacra incisione
è la morte familiare.
Vedi, io vivo. Di che cosa? Né fanciullezza né futuro
Vengono meno…innumerevole esistenza
Nasce a me nel cuore."
mi scuso ma credo di non sbagliarmi se dico che il lungo testo inviato a Alberto Cane non è di Leone Traverso, ma una traduzione alternativa dell'elegia di Rilke di cui è stato pubblicato un frammento. bisognerebbe correggere...
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