Pagine

sabato 3 novembre 2007

Erminio Lanteri Motin

Erminio Lanteri Motin

Erminio Lanteri Motin era parte di una comunità antichissima - i brigaschi - che da millenni ha abitato le montagne intorno al Saccarello. A Realdo, uno degli alti borghi della terra brigasca, era rimasto forse l’ultimo autentico cantore di questa civiltà . E’ con struggente nostalgia che ricordo le innumerevoli volte in cui Erminio mi ha raccontato le interminabili storie della sua terra. Storie che percorrevano secoli e ritornavano sempre al nocciolo della questione: la lotta per la sopravvivenza in una terra conquistata all’altitudine, la vita scandita dalle stagioni, la storia di questo popolo di pastori che in parte diventa contadino e semina grano fino alle alte pendici del Saccarello. Nello scandire lento di una civiltà rimasta quasi immutata fino al dopoguerra e preservatasi fino al 1972 grazie al suo isolamento (solo allora venne costruita la strada carrozzabile da Loreto a Realdo) i fatti della storia che hanno interessato questo territorio assumono un fascino e una valenza tutta particolare. Dalle lotte per i confini tra Repubblica ligure e Regno di Sardegna- confine che era tracciato dal torrente argentina tra Realdo e Verdeggia – alle battaglie degli eserciti napoleonici e sabaudi proprio vicino a Cima Marta, alla guerra partigiana combattuta proprio su quei monti, Erminio era il nostro affascinante aede, ultimo erede di un popolo abituato a tramandare la propria identità da generazione a generazione attraverso i suoi racconti orali. Tutto è importante per conservarne la memoria: il dialetto, le tradizioni, i riti, i canti, le feste religiose, le processioni, le preparazioni di piatti tradizionali, l’accensione del forno comune almeno una volta l’anno. Ma soprattutto l’abitudine di riunirsi nella piazza in cima al paese per accogliere chi arrivava con un saluto cordiale. E da lì controllare il monte Saccarello seguendo con il binocolo il migrare dei camosci, i livelli delle acque e della neve. Erminio ha accompagnato per i sentieri della terra brigasca tutti coloro che gli chiedevano di poter conoscere quel fantastico e sconosciuto territorio. Spesso erano giornalisti, registi, autori di documentari, archeologi, storici, etnologi. Generoso ed orgoglioso della sua appartenere alla comunità brigasca ha sempre voluto far partecipe l’ospite del paese svelandogli l’anima del paese stesso, il pulsare della vita contadina e degli uomini che per secoli hanno vissuto in quelle case ora abbandonate e hanno percorso con i loro animali quegli acciottolati sconnessi. Preferiva che altri e non lui scrivessero su Realdo e sui brigaschi. Erminio si riservava il piacere più intimo di scrivere poesie, bellissime poesie. Per ricordarlo trascrivo la mia preferita (‘Ř Ni’), tradotta in italiano dal brigasco (l’originale ha una maggiore forza espressiva dovuta all’uso di termini e espressioni dialettali).
Il Nido Una volta, entrando nella batteria del forte del Saccarello (abbandonato da tanti anni) in un buco del muro ho visto un nido, forse di un piccolo tordo, con gli uccellini dentro. Finalmente, mi son detto, che tanta spesa servisse a qualcosa e lo potessero vedere, e ne sarebbero contenti, anche gli operai che hanno lavorato qui al forte, fatto per mandare fuoco e morte, servire invece per proteggere un nido. Come sarebbe bello, mi son detto, che tutti i forti e le rampe del mondo si trasformassero un giorno in nicchie per uccelli, e le baionette in falci e roncole, i fucili e cannoni in aratri e bidenti per lavorare e coltivare questa terra. Se tutte le frontiere si coprissero di fiori come al mese di giugno qui al Saccarello, quando il verde dei prati si abbina al rosa dei rododendri in fiore.
Erminio Lanteri Motin Realdo (frazione di Briga Marittima) 1928 Realdo (frazione di Triora) 2007

6 commenti:

  1. Come sarebbe bello...
    Se domani qualche Sindaco leggesse una poesia come questa, in piedi di fronte alle tante lapidi che ricordano la grande guerra.
    Seve

    RispondiElimina
  2. grazie alberto per questo ricordo.
    quando arrivai come anonimo in questo blog, ero convinto che ci fosse una legge dello stato che sanciva l'occitano brigasco (da qualche parte l'avevo letto....forse sulla vastera....forse ho travisato): e ti ho un po' "insultato": scrivi al papa! scrivi al ministro per i beni e le attivita' culturali!
    pian pianino ho dovuto ridimensionare le mie ironie: perche' mi sono reso conto che ero molto ignorante in materia.
    Non ho conosciuto erminio. Cioe' non gli ho mai parlato. Come dici tu, ed oggi ho letto nella "nomnklatura" della vastera: non ne faceva parte. Forse veramente preferiva che altri, scrivessero dei brigaschi. Pero' l'ho visto varie volte ed ora che non c'e' penso alle occasioni perse (una delle tante, nemmeno le piu' gravi....).
    Fin da bambino il mio prozio mi raccontava del favoloso tesoro di Ciapape' (o case di barma sulle cartine). Oggi e' una piccola morga nel bosco di realdo, sommersa dal bosco ed in rovina.
    I vecchi raccontavano che li', dopo la rivoluzione francese, si erano rifugiati due nobili fratelli ed i loro averi (marenghi d'oro!). Non si erano sposati (come erminio) ed erano morti improvvisamente. Ed il tesoro? qualcuno l'aveva ritrovato?
    Erminio aveva la casa a ciapape', mi han detto che ironicamente si faceva chiamare il "conte di Ciapape'". Penso che abbia condotto degli scavi anche li'.
    Non potro' piu' chiedergli come era davvero la storia del tesoro ora che anche l'ultimo custode di quella morga, se ne e' andato....
    Riposa in pace.

    RispondiElimina
  3. Se ne sono andati in silenzio, uno ad uno, gli ultimi testimoni di una civiltà agro-silvo-pastorale che ormai può solo più essere argomento di studi etnografici o filologici, una civiltà pronta ad essere relegata nel dimenticatoio da una società inebriata dal benessere, dalle grandi infrastrutture, dai mega-porti turistici, dai 4x4 che si inerpicano rombando sulle montagne.
    Ho conosciuto anch’io Erminio Lanteri Motin (purtroppo meno di quanto avessi voluto), da “foresto” interessato a visitare e a conoscere la “sua” terra, e mi trasmetteva anche lui, come molti altri di quei testimoni silenziosi e forse anche con un maggior grado di consapevolezza, oltre a quel grande amore che gli riempiva il cuore, una grande sofferenza per quello che stava accadendo intorno, per l’oblio e il degrado, per lo sfregio arrecato quotidianamente alla testimonianza vivente di secoli di fatica, di sudore, di caparbietà. Muri a secco che crollano, terre rinselvatichite, paesi e borgate spopolate, disinteresse generalizzato per le tradizioni, la cultura, le proprie radici.
    ImperiaParla ci annuncia per i prossimi giorni a Imperia un seminario accademico su “Paesaggio e patrimonio rurale”. Sarà scientificamente documentato e interessante, come lo è stato alcuni giorni fa a Roma quello a cui ho assistito su “Paesaggio italiano aggredito, che fare?”, in cui si è tanto parlato con la consapevolezza però che non si può intervenire nella difesa del patrimonio ambientale in presenza di interessi economici e politici più forti.
    Lo sto dicendo un po’ dappertutto, a costo di apparire noioso, ma ho l’impressione che dietro tutte queste iniziative in difesa dell’ambiente, del territorio, del paesaggio, della memoria etnografica e linguistica, del patrimonio storico-artistico ecc ecc ci sia una grande presa in giro di fondo. Si veda l’ultima chicca, la c.d. Legge Iannuzzi votata qualche giorno fa dal Parlamento. Questo provvedimento normativo, votato all’unanimità da destra a sinistra, tratta della riqualificazione e del recupero dei centri storici italiani. Bellissimo!… Peccato che lo stanziamento sia di 25 milioni di Euro all’anno per il triennio 2007-2009: in Italia ci sono oltre 8000 comuni e circa 20mila centri storici, provate a dividere la cifra e avrete gli stanziamenti “medi”: 3000 euro per comune (6 milioni delle vecchie lire), 1250 euro per ogni “centro storico”. Complimenti!

    RispondiElimina
  4. C'è, a Villa del Foro (l'antica Forum Fulvii), sobborgo di Alessandria, Giovanni Rapetti, scultore in bronzo (fu allievo di Manzù), disegnatore e quant'altro, che da decenni scrive poesie in vernacolo per fissare le memorie di una natura pulita e di una solidarietà collettiva ormai scomparse, almeno qui.
    Copio un suo testo, con traduzione:

    ER PIVLÉIN
    Vighi ‘r pivléin a curi ‘t vian da reji
    in scarabocc coi tràmpul ch’l’à ‘r fermeji
    s-ciudiva ans i sabiòn calanda Tani
    quand che l’istà bèiv l’èua e pusa ‘r cani.
    Dji uav gròs cme cui der mèrlu, fa ‘nt ra sabia
    pua capitè ‘d truvéi, quat séing, fin rabia
    ien que, l’aut là, der voti ticc ansema
    nèinta na bisca atur, smeja fin sema.
    Spieghè ch’a l’è ‘r pivléin l’iara Pidòtu
    ien dì e nuacc ans Tani, ‘s robi ij nòtu
    ‘n servà chil e sua fiua, gèint pesca e l’izra
    cuntèint du sua burcià, anca s’r’è mizra.
    Riva gì, lì, avust er sabii frizu
    bala ra vègia, scus i pia ch’it brizu
    u su fa ra pita a j-uav, s-ciòd i pivléin
    curu dlonc ans cuj duaj stec, cme i quaiutéin.
    Pi cit che u scanapes, ‘n chiquià ‘ns na gamba
    giugàtul cu sta dricc balè ra samba
    cur nan e ‘drià da l’èua plicutèra
    drià ‘r muschi, j’aj o ‘r uèspi, le cicèra.
    Ticc j’an a primavèira l’inundasion
    ra geint a vighi Tani curi ai Livion
    j’iara i pivléin ans l’èua ch’i giravu
    o fèrm ans l’armenton, ch’i navigavu.
    Finì l’istà sparivu sabii e gèri
    cant e lamèint tazivu, ‘r pianti e ‘r tèri
    turnavu l’an après, cor nìuri ‘n glòria
    ‘r pivléin t’an l’ài pì vist, ra so listòria.
    Er biàstii san u tèimp pì tant che l’òmi
    Son rigulà ar stagion, amur e stòmi
    ‘r dundren-ni s-ciòdu i so nì ‘r giurnà dl’amson
    coi camp zà quèrt ‘d granaja, d’ampì ‘r gavon.
    Aldo l’è ‘ncura que da Tani e l’izra.
    Purtèisu stè in sità fa na fèin mizra
    zà dicc che quand che ‘r muar fiù na vuà meja
    piantu du rami ‘d gura, ‘r miai ch’uj seja.
    tanaro.qxd 3-09-2007 17:12 Pagina 52

    IL PIVIERE (traduzione)
    A vedere il piviere correre, ti viene da ridere: uno scarabocchio coi trampoli che ha il for-micolio. Compariva sui sabbioni calando Tanaro, quando l’estate beve l’acqua e spinge le canne. Uova grosse come quelle del merlo, fa nella sabbia; può capitare di trovarle, quattro cinque, fa persino rabbia: una qua, l’altra là, a volte tutte insieme; non una pagliuzza at-torno, sembra persino scemo. A spiegare che è il piviere era Pidotu: uno giorno e notte sul Tanaro, queste cose le nota; un selvatico lui e suo figlio, gente da pesca e bosco (isola), con-tenti della loro barca, anche se è misera. Arriva giugno, luglio, agosto, le sabbie friggono, ‘balla la vecchia’ (l’aria tremola per la calura), scalzi i piedi ti bruciano, il sole fa da chioc-cia alle uova, schiude i pivieri, corrono subito su quei due stecchi, come i quagliottini. Più piccolo del fraticello (Sterna albifrons), un capanno (da vigna) pensile sulla gamba, giocatto-lo che sta dritto a ballare la samba, corre avanti e indietro dall’acqua, becchettando all’inseguimento delle mosche, delle api o delle vespe, a succhiarle. Tutti gli anni, a prima-vera, l’inondazione; la gente a vedere il Tanaro correre ad Alluvioni. C’erano i pivieri che giravano sull’acqua, o fermi sui detriti, che navigavano. Finita l’estate, sparivano sabbie e ghiaie; canti e lamenti tacevano; le piante e le terre tornavano l’anno dopo, con le nuvole in gloria; il piviere non l’hai più visto, e la sua vicenda. Le bestie conoscono il tempo meglio di quanto facciano gli uomini; si regolano secondo le stagioni, amore e appetito; le tortorel-le schiudono le loro nidiate nelle giornate delle messi, coi campi già coperti di granaglie, da riempirne il gozzo. Aldo è ancora qui, tra il Tanaro e il bosco; lo portassero a stare in città, farebbe una misera fine. Ha già detto che, quando muore, fiori non ne vuole: piàntino due rami di indaco bastardo (Amorpha fruticosa), il meglio che ci sia.

    RispondiElimina
  5. Quante belle cose ho letto e sentito su Erminio; e quanti bei momenti ho trascorso con lui!
    Faccio solo notare che è nato e morto nel Suo paese; cosa assai rara oggi dove si nasce quasi sempre in ospedale e vi si muore.
    Anche in questo ha saputo distinguersi!
    "Arveiru"

    RispondiElimina
  6. Ho conosciuto Erminio molto bene e mi manca moltissimo. Un uomo riservato e cordiale, amante del suo paese, delle tradizioni, della parlata brigasca. Coltivava il suo orticello, l'unica fatica che potesse sopportare la sua salute, non ottima. Il resto a discorrere con gente arrivata per caso in cima al paese, a fare da cicerone. Un'anima bella e semplice che si è riunita al fratello Enrico ai genitori che venerava. Si, perchè sarà felice che tutti lo sappiano, Erminio era un credente dalla fede adulta e forte. Non è mai mancato all'appuntamento della Messa domenicale, questo aveva imparato dalla famiglia, dove svolgeva con grande piacere il ministero di cantore nel locale coro parrocchiale. Ora solo il silenzio evocherà la tua voce intonata e forte che mancherà, mancherà... Ciao Erminio, la nostra fede ci assicura la Vita oltre la vita, per questo ti so vivente e vicino a tutti noi che ti abbiamo voluto bene. Riposa nella pace.

    RispondiElimina