Più di mezzo secolo fa fu soppressa a Isolabona (IM) una tradizione antica che veniva praticata il Giovedì Santo. Un uomo, alla maniera del Cristo, si faceva deridere e percuotere a sangue in una processione che attraversava per un lungo tratto il paese. Ho scritto questo racconto fedele alla cronaca basata sui ricordi di chi allora, ultimo, portò la croce.
Isolabona, pomeriggio e sera di un Giovedì Santo d’altri tempi
Quando il tramonto era ormai prossimo, un uomo usciva furtivamente di casa e dopo giri tortuosi nei carugi raggiungeva l’oratorio di S. Croce dove lo attendeva il capo dell’omonima confraternita. Aveva ancora nelle orecchie le raccomandazioni che la madre o la moglie gli avevano fatto: ma cosa una donna potesse dire a un uomo a cui voleva bene e che, sano di mente, di propria spontanea volontà, si accingeva a farsi deridere e percuotere, è al di fuori della mia portata immaginativa.
I convenevoli erano brevi, tutto ormai era già stato deciso nei giorni precedenti. Si passava subito alla vestizione che doveva essere terminata prima che arrivassero gli altri confratelli all’oscuro della sua identità. Veniva aiutato ad indossare un rozzo cåmiju (camice) di cànevu (canapa), si infilava ai piedi un paio di grossolane calze di lana al cui interno erano state inserite due suole di cartone, si cingeva alla vita un cordone, in ultimo si infilava sul capo un cappuccio con due fori corrispondenti agli occhi: era pronto. Appesa al muro lo attendeva una croce di medie dimensioni a cui non era inchiodato nessun Cristo. Se la sarebbe caricata sulle spalle e per quella volta l’agnello sacrificale sarebbe stato lui stesso.
In lontananza si sentiva il ta-ra-ta-tà delle tarabale che in quei giorni sostituivano le campane che erano “legate”. Erano suonate dalle turbe di Giüdei, bambini e ragazzi grandi, i suoi persecutori. Se li vedeva già davanti i più scalmanati, quelli che avrebbe dovuto tenere d’occhio per cercare di evitare le percosse più accanite.
Intanto arrivavano anche gli altri confratelli e anche per loro iniziava il rito della vestizione. Indossavano un camice più o meno simile e sulle spalle la mürsia (una mantellina di colore rosso cupo).
Ormai si era fatto scuro. Forse non avete mai provato a pensare com’erano questi paesi la notte. Bene. Provateci che vi do una mano. Quando non esisteva la corrente elettrica, alcuni farnåi (lumi a petrolio), appesi nei crocicchi principali e che un addetto accendeva la sera, costituivano l’illuminazione pubblica. Le finestre delle cucine emanavano un tenue chiarore rossastro proveniente dal caminetto e dai lumi ad olio. Si forava appena il buio. Ma quella sera speciale sui davanzali lungo il percorso della processione venivano posti gusci di lumache pieni d’olio e muniti di stoppino. Luminarie primitive di materiale riciclato non soggette alla bolletta Enel. Quando venivano accese, le fiammelle tremolanti ricordavano le anime del purgatorio dipinte negli affreschi sacri.
In questa atmosfera il condannato faceva capolino sulla porta dell’oratorio. Per un attimo si sollevava un lieve brusio, ipotesi sussurrate sull’appartenenza di quei due occhi che si intravedevano attraverso i buchi del cappuccio. Ma subito dopo si andava a cominciare.
Partenza.
La controfigura del Cristo prima di tutti, poi i confratelli - uno di essi portava un’altra croce sul cui braccio orizzontale erano infissi i misteri, cioè tutta la simbologia della Passione - poi le donne, ognuna con una candela in mano, e naturalmente i Giüdei in ordine sparso, impazienti di scatenarsi.
Ma non manca qualcuno? Altroché! Il parroco quella sera se ne stava rintanato in canonica, lavandosene tranquillamente le mani di quello che sarebbe successo al penitente. Per la cronaca, almeno nell’ultima edizione, che si svolse nel 1946 e di cui ho il racconto registrato fattomi dal protagonista, il prete c’era. Ma era un prete nuovo, appena insediato, e nessuno lo aveva informato delle usanze del paese.
Sulla Bunda, la via principale del centro storico, a parte qualche sberleffo, tutto rimaneva tranquillo. L’inizio del calvario iniziava dal Büteghìn, da lì in poi la strada era disseminata di sbrili (pietre aguzze e taglienti) e di ogni genere di arbusti spinosi tra cui soprattutto aråstre (ulex europaeus) ma anche regüranse (rosa canina) e rovi. I Giüdei impugnavano fusti di una pianta chiamata appunto båticristu (arctium lappa), adoperati, per la loro resistenza, come scudisci.
Forse all’inizio c’era un attimo di esitazione perché cominciare a colpire, così a freddo, un uomo, pure in un rito semisacro, poteva sembrare una vigliaccheria. Ma scagliata, e non metaforicamente, la prima geva (zolla di terra), era un diluvio. Anche perché nel percorso in discesa della Bunda il più delle volte il penitente veniva identificato dall’osservazione attenta di vari particolari, in primo luogo l’andatura. E così per qualcuno poteva diventare un piccolo regolamento di conti.
Il tragitto, anche se non in erta salita come il Golgota, era bello lungo. Si andava fino alla chiesetta di S. Rocco e si ritornava indietro dopo una sosta davanti al cimitero. Le donne e i confratelli pregavano e cantavano, i Giüdei colpivano, e qualche volta, quando le percosse si facevano più dure, il penitente bestemmiava; poteva addirittura succedere che preso particolarmente di mira, deponesse la croce e inseguisse il suo persecutore senza mai raggiungerlo, impacciato com’era nei movimenti, per ritornare poi mestamente al suo calvario. C’erano dei punti fissi dove i Giüdei si potevano rifornire di munizioni ed erano le fasce prospicienti la strada. Quando si arrivava lì, l’uomo cercava di proteggersi come meglio poteva ma tutto era inutile. Lividi, sudore e sangue, man mano che si procedeva, aumentavano.
Sorge quindi spontaneo l’interrogativo: ma perché lo faceva? Peccati da farsi perdonare? Di quale mai gravità? E nell’intimità della casa si conoscevano almeno le motivazioni del congiunto, oppure tutto rimaneva relegato in quell’angolo recondito dell’animo da dove si sprigionano gli impulsi più nobili ma anche gli istinti più inconfessabili? Domande senza risposta. Posso solo dire che chi mi raccontò la sua Passione, l’ultimo, come abbiamo già detto, perché con lo scioglimento della Confraternita nel 1947, il rito fu soppresso, motivò quella sua scelta con un voto fatto in tempo di guerra, prigioniero nell’isola di Creta, in stato di estrema prostrazione.
Sulla via del ritorno, dato che non c’era stato il sacrificio estremo, cioè la crocifissione, e ci sarebbe mancato anche questo, la penitenza continuava, anche se con minore fervore. Ma su quel corpo ormai piagato pure le carezze avrebbero fatto male.
Dopo quello sfogo collettivo, su cui gli antropologi avrebbero ancora molto da scavare, si finiva in bellezza con una cena offerta dal priuu a base di fresciöi (frittelle) di baccalà, turta (torta pasqualina) e va da sè vino.
Quando il tramonto era ormai prossimo, un uomo usciva furtivamente di casa e dopo giri tortuosi nei carugi raggiungeva l’oratorio di S. Croce dove lo attendeva il capo dell’omonima confraternita. Aveva ancora nelle orecchie le raccomandazioni che la madre o la moglie gli avevano fatto: ma cosa una donna potesse dire a un uomo a cui voleva bene e che, sano di mente, di propria spontanea volontà, si accingeva a farsi deridere e percuotere, è al di fuori della mia portata immaginativa.
I convenevoli erano brevi, tutto ormai era già stato deciso nei giorni precedenti. Si passava subito alla vestizione che doveva essere terminata prima che arrivassero gli altri confratelli all’oscuro della sua identità. Veniva aiutato ad indossare un rozzo cåmiju (camice) di cànevu (canapa), si infilava ai piedi un paio di grossolane calze di lana al cui interno erano state inserite due suole di cartone, si cingeva alla vita un cordone, in ultimo si infilava sul capo un cappuccio con due fori corrispondenti agli occhi: era pronto. Appesa al muro lo attendeva una croce di medie dimensioni a cui non era inchiodato nessun Cristo. Se la sarebbe caricata sulle spalle e per quella volta l’agnello sacrificale sarebbe stato lui stesso.
In lontananza si sentiva il ta-ra-ta-tà delle tarabale che in quei giorni sostituivano le campane che erano “legate”. Erano suonate dalle turbe di Giüdei, bambini e ragazzi grandi, i suoi persecutori. Se li vedeva già davanti i più scalmanati, quelli che avrebbe dovuto tenere d’occhio per cercare di evitare le percosse più accanite.
Intanto arrivavano anche gli altri confratelli e anche per loro iniziava il rito della vestizione. Indossavano un camice più o meno simile e sulle spalle la mürsia (una mantellina di colore rosso cupo).
Ormai si era fatto scuro. Forse non avete mai provato a pensare com’erano questi paesi la notte. Bene. Provateci che vi do una mano. Quando non esisteva la corrente elettrica, alcuni farnåi (lumi a petrolio), appesi nei crocicchi principali e che un addetto accendeva la sera, costituivano l’illuminazione pubblica. Le finestre delle cucine emanavano un tenue chiarore rossastro proveniente dal caminetto e dai lumi ad olio. Si forava appena il buio. Ma quella sera speciale sui davanzali lungo il percorso della processione venivano posti gusci di lumache pieni d’olio e muniti di stoppino. Luminarie primitive di materiale riciclato non soggette alla bolletta Enel. Quando venivano accese, le fiammelle tremolanti ricordavano le anime del purgatorio dipinte negli affreschi sacri.
In questa atmosfera il condannato faceva capolino sulla porta dell’oratorio. Per un attimo si sollevava un lieve brusio, ipotesi sussurrate sull’appartenenza di quei due occhi che si intravedevano attraverso i buchi del cappuccio. Ma subito dopo si andava a cominciare.
Partenza.
La controfigura del Cristo prima di tutti, poi i confratelli - uno di essi portava un’altra croce sul cui braccio orizzontale erano infissi i misteri, cioè tutta la simbologia della Passione - poi le donne, ognuna con una candela in mano, e naturalmente i Giüdei in ordine sparso, impazienti di scatenarsi.
Ma non manca qualcuno? Altroché! Il parroco quella sera se ne stava rintanato in canonica, lavandosene tranquillamente le mani di quello che sarebbe successo al penitente. Per la cronaca, almeno nell’ultima edizione, che si svolse nel 1946 e di cui ho il racconto registrato fattomi dal protagonista, il prete c’era. Ma era un prete nuovo, appena insediato, e nessuno lo aveva informato delle usanze del paese.
Sulla Bunda, la via principale del centro storico, a parte qualche sberleffo, tutto rimaneva tranquillo. L’inizio del calvario iniziava dal Büteghìn, da lì in poi la strada era disseminata di sbrili (pietre aguzze e taglienti) e di ogni genere di arbusti spinosi tra cui soprattutto aråstre (ulex europaeus) ma anche regüranse (rosa canina) e rovi. I Giüdei impugnavano fusti di una pianta chiamata appunto båticristu (arctium lappa), adoperati, per la loro resistenza, come scudisci.
Forse all’inizio c’era un attimo di esitazione perché cominciare a colpire, così a freddo, un uomo, pure in un rito semisacro, poteva sembrare una vigliaccheria. Ma scagliata, e non metaforicamente, la prima geva (zolla di terra), era un diluvio. Anche perché nel percorso in discesa della Bunda il più delle volte il penitente veniva identificato dall’osservazione attenta di vari particolari, in primo luogo l’andatura. E così per qualcuno poteva diventare un piccolo regolamento di conti.
Il tragitto, anche se non in erta salita come il Golgota, era bello lungo. Si andava fino alla chiesetta di S. Rocco e si ritornava indietro dopo una sosta davanti al cimitero. Le donne e i confratelli pregavano e cantavano, i Giüdei colpivano, e qualche volta, quando le percosse si facevano più dure, il penitente bestemmiava; poteva addirittura succedere che preso particolarmente di mira, deponesse la croce e inseguisse il suo persecutore senza mai raggiungerlo, impacciato com’era nei movimenti, per ritornare poi mestamente al suo calvario. C’erano dei punti fissi dove i Giüdei si potevano rifornire di munizioni ed erano le fasce prospicienti la strada. Quando si arrivava lì, l’uomo cercava di proteggersi come meglio poteva ma tutto era inutile. Lividi, sudore e sangue, man mano che si procedeva, aumentavano.
Sorge quindi spontaneo l’interrogativo: ma perché lo faceva? Peccati da farsi perdonare? Di quale mai gravità? E nell’intimità della casa si conoscevano almeno le motivazioni del congiunto, oppure tutto rimaneva relegato in quell’angolo recondito dell’animo da dove si sprigionano gli impulsi più nobili ma anche gli istinti più inconfessabili? Domande senza risposta. Posso solo dire che chi mi raccontò la sua Passione, l’ultimo, come abbiamo già detto, perché con lo scioglimento della Confraternita nel 1947, il rito fu soppresso, motivò quella sua scelta con un voto fatto in tempo di guerra, prigioniero nell’isola di Creta, in stato di estrema prostrazione.
Sulla via del ritorno, dato che non c’era stato il sacrificio estremo, cioè la crocifissione, e ci sarebbe mancato anche questo, la penitenza continuava, anche se con minore fervore. Ma su quel corpo ormai piagato pure le carezze avrebbero fatto male.
Dopo quello sfogo collettivo, su cui gli antropologi avrebbero ancora molto da scavare, si finiva in bellezza con una cena offerta dal priuu a base di fresciöi (frittelle) di baccalà, turta (torta pasqualina) e va da sè vino.
Non avevo mai sentito di questa tradizione.
RispondiEliminaIl racconto sembra scritto da uno storico d'epoca, complimenti
ciao e se non riesco a ripassare, buone vacanze pasquali
Anch'io non ne sapevo nulla....qualcuno forse si immedesimava troppo nella parte....
RispondiEliminaCiao e
Buona Pasqua
una tradizione piuttosto cruenta...
RispondiEliminaPurtroppo lo stiamo vivendo tutti i giorni il supplizio della via crucis....adeguato ai tempi ma sempre supplizio!
RispondiEliminaComunque e' bellissimo che qualcuno ci ricordi le vecchie tradizioni...non si deve mai perdere nulla per la strada della vita! Complimenti Alberto sei sempre "d'effetto" Nobis
La processione del Giovedì Santo, in maniera (volutamente) un po' edulcorata vista la giovane età degli interpreti, è stata rispolverata e ripresa dal sottoscritto e realizzata nell'ambito del progetto di Educazione teatrale condotto nelle scuole di Isolabona nell' anno scolastico 2005/2006, e rappresentato nell'estate 2006 in piazza e per i caruggi di Isola, per poi concludersi al castello. A margine va detto che i bambini e le insegnanti vi hanno lavorato molto durante le ore di storia. E Alberto se non ricordo male aveva realizzato anche una bella galleria fotografica dell'evento. Bene l'idea di riproporla qui.
RispondiEliminaSì Davide avevo fatto le foto ma purtroppo non le ho mai messe online.
RispondiEliminaSi tratta di un'antica tradizione, in voga anche in altri paesi, ad esempio a Vallebona (A tragedia) e a Triora. Qui si narrano soltanto episodi marginali e buffi (!). Ad esempio ad un certo Giacò chiesero chi fosse; lui rispose: "Mi chiamo Giacò e pianto i fagioli per mantener Carmela e tutti i suoi figlioli". Per rendere più realistica la cosa, facevano bere aceto al posto del vino (sul serio!) tra le risate (!?) del pubblico.
RispondiEliminaHo letto con piacere la cronaca di Alberto, veramente realistica.
Volevo solo ricordare che a Triora esiste ancora la cerimonia della deposizione del Cristo dalla Croce, che viene eseguita il venerdì santo, su iniziativa della Confraternita della Buona Morte.
mmhh... non conoscevo neppure io questa tradizione. Angoscia!
RispondiEliminaComplimenti per la descrizione Al.
Sei bravo!:-)
Da noi si faceva e non ho mai capito perché quelli che seguivano cristo avevano una tunica bianca, tipo frate, incappucciati, ma era soft: niente frustate o derisioni.
RispondiEliminaNon conoscevo questo tipo di tradizione. Molto interessante.
RispondiEliminaMi sembra che nel film "Amici miei atto III" sia stata fata la parodia a questa usanza..
RispondiEliminaCiao, Alberto. Non ero a conoscenza di questa antica tradizione ene sono rimasta colpita.Inquietante, non sparei trovare un altro temine per descrivere le sensazioni che ha suscitato i me la tua ottima narrazione.
RispondiEliminaNe ho fatto lo sharing su websomethingelse.
Colgo l'occasione per augurare Buona Pasqua a te e ai lettori di questo blog.
Mi scuso per gli errori, dovuti alla velocità di digitazione. Non li richiamo qui perché si intuisce come dovrebbe essere la versione corretta.
RispondiEliminaAlberto mi hai fatto rivivere un periodo della mia infanzia. Se non vado errato l'ultimo "protagonista" della Via Crucis è stato Derì.
RispondiEliminafuin
RispondiEliminaSì era lui, e, come ho scritto, ho la registrazione.
Auguro a tutti Buona Pasqua-
RispondiEliminaLe campane legate erano tradizione al mio paese, come le statue e il Crocifisso centrale velate di stoffa viola - nessun fiore all'altare - le funzioni della settimana santa venivano annunciate con il corno e un attrezzo identico a quello di Isolabona - Al gloria di Pasqua che avveniva a mezzanotte del sabato santo, si scioglievano le campane in un festoso orchestrale - Inoltre c'era la tradizione che al momento del gloria l'acqua fosse benedetta e ci si dovesse lavare gli occhi per proteggere la vista. Cose d'altri tempi, però avevano il sentore del genuino, del semplice e buono come il profumo del pane appena cotto nel forno comune del paese!-
29 marzo 2008
RispondiEliminaIl pensiero forte del cardinale Antonio Cañizares. Tutta l'intervista sul Foglio in edicola
IL DURO ACCIAIO DI TOLEDO
L’aborto, la cultura e le legislazioni abortiste, l’ideologia del genere e la sua deriva nichilista, l’autonomia dell’uomo contemporaneo e il nuovo concetto di diritto
Nell’intervista da Lei rilasciata al Corriere della Sera l’11 marzo scorso abbiamo letto – con entusiasmo – la sua adesione alla campagna per la moratoria sull’aborto. Lei ha anche detto che l’aborto “è il peggior degrado della storia dell’umanità”. Perché ritiene che il tema dell’aborto sia oggi così decisivo, più importante rispetto ad altri problemi? L’aborto è la violazione del diritto più fondamentale e sacrosanto di tutti i diritti umani: il diritto alla vita, intimamente connesso a ciò che c’è di più essenziale della dignità inviolabile di ogni essere umano, base della convivenza tra gli uomini, base della società. Nell’aborto si viola il “non uccidere”, un assoluto inscritto nella natura umana e che appartiene alla “grammatica comune” dell’essere umano. Si tratta di un crimine contro la persona e la società, perpetrato, inoltre, contro esseri umani innocenti, deboli e indifesi. Legittimare la morte di un innocente per mezzo dell’aborto mina e distrugge, dunque, il fondamento stesso della società. La generalizzazione tanto massiccia ai nostri giorni dell’aborto legale – sono molti milioni all’anno – in base a legislazioni permissive, nell’una o nell’altra maniera a favore dell’aborto, costituisce una grandissima sconfitta dell’umanità: sono stati sconfitti, in realtà, l’uomo e la donna. E’ stata sconfitta la società basata sul bene comune, giacché con l’aborto si sacrifica la vita di un essere umano a beni di valore inferiore e si sottomette il bene comune all’eliminazione della vita a favore il più delle volte di un benessere. E’ stato sconfitto il medico che ha rinnegato il giuramento e il titolo più nobile della medicina: quello di difendere e salvare la vita umana. Sono stati sconfitti i legislatori e coloro che devono applicare il diritto, chiamati tutti costoro a realizzare la giustizia e difendere il debole. Viene pure sconfitto lo stato di diritto, che ha rinunciato alla protezione fondamentale che deve al sacrosanto diritto della persona alla vita; lo stato invece di intervenire, secondo la sua missione, per difendere l’innocente in pericolo, impedendo la sua morte e assicurando, con mezzi adeguati, la sua esistenza e la sua crescita, con le sue leggi permissive contro la vita umana, come è l’aborto legale, sta autorizzando, di fatto, la violazione di un diritto fondamentale e l’esecuzione di “sentenze di morte” ingiuste, senza che, per giunta, il morituro possa difendersi; cosí non si sostiene lo stato di diritto. Possiamo approfondire ancora. Le legislazioni favorevoli all’aborto pongono in questione il carattere di “umano” di questo nuovo essere vivo dal momento in cui è concepito o portato in grembo. In queste legislazioni, questo essere vivo è una cosa, un qualcosa, non un qualcuno, un chi, a cui non si possa sottrarre la condizione di essere personale, inerente a ogni essere umano. Con ciò, non solo viene gravemente posto in questione il diritto fondamentale dell’uomo alla vita, ma anche la persona stessa. A partire da qui già non si sa più chi è il soggetto del diritto fondamentale alla vita: l’essere umano simpliciter ut talis, in quanto tale o quello che decidono di considerare come tale i legislatori, le maggioranze parlamentari, il potere, insomma? Qui c’è una questione di fondo gravissima: chi, quando e come si è uomo. Chi lo decide? O sta nelle mani dell’uomo – del potere – decidere quando si è persona? Tutto ciò ha conseguenze enormi, per esempio, nel campo della concezione dei diritti umani, della creazione o dell’allargamento di “nuovi” diritti eccetera. Per questo il tema dell’aborto è tanto decisivo, più importante di altri problemi. Così si comprende come sia il problema più grave che si è avuto nella storia dell’umanità e quello che segna una frattura tra l’uomo e la società mai accaduta prima. Presto l’umanità se ne vergognerà, come si vergogna della schiavitù o di genocidi ancora a noi tanto vicini.
di Maurizio Crippa
che significa il copiaincolla qui sopra..falange armata all'orizzonte?
RispondiElimina" Pianeta terra chiama fiordimelo.
RispondiEliminaGenzianella, fiordimelo
rispondete..!"