lunedì 7 aprile 2008
Le olimpiadi e Hu Jintao
Pechino, 21 ottobre 2007. Hu Jintao durante la sessione di chiusura del 17° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese. (Xinhua Photo)
Ieri a Londra la fiaccola che sta viaggiando con ampi zig zag verso Pechino ha rischiato di essere spenta dagli estintori dei manifestanti. L'ambasciatrice cinese che avrebbe dovuto portarla per un tratto non s'è fatta vedere (vergogna!). Chissà come la pensano gli atleti inglesi che come scrissi per partecipare alle Olimpiadi hanno dovuto firmare un contratto capestro. Mentre scrivo sento dalla radio che altre contestazioni stanno avvenendo a Parigi.
Tutto questo per manifestare e rendere visibile all'attenzione del mondo la situazione del Tibet che la Cina schiaccia sotto il suo tallone. Ecco il punto che volevo affrontare. Quando si manifesta contro la guerra in Iraq si distingue tra l'America, gli americani da una parte e l'amministrazione Bush dall'altra. Invece per le Olimpiadi continuiamo a parlare genericamente di Cina, come se questa sterminata nazione non avesse un governo responsabile di tutta la sua politica repressiva. Un governo con a capo Hu Jintao che vedete nella foto e di cui molti non ricordano così al volo il nome e nemmeno la faccia. Ma si sa laggiù hanno gli occhi a mandorla e sono tutti uguali. Hu Jintao, attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, nonché Segretario Generale del Partito Comunista Cinese e anche capo delle forze armate del Paese
Un governo che non reprime solo il Tibet ma tutti i cinesi che di fatto non hanno nessun diritto civile e che soffoca brutalmente il dissenso. Cosa ne sappiamo noi di quello che veramente succede nelle sperdute province da dove ogni tanto giungono echi smorzati di rivolte di contadini alla fame e cosa ne sappiamo degli intellettuali critici verso il regime condannati ai lavori forzati e deportati in Africa (Angola) a lavorare come schiavi nei campi petroliferi?
Non vorrei che i riflettori fossero puntati solo sul Tibet e che la mancanza dei diritti dei cinesi in toto fosse trascurata, specialmente dopo che l'America ha sdoganato questo Stato. Sdoganamento dovuto al fatto che queste due nazioni sono ormai legate in una specie di ossimoro storico. Entrambe concorrenti spietate sui mercati mondiali alla ricerca di materie prime, in primis l'oro nero, ma avvinghiate da un rapporto economico forse non più risolvibile visto che il debito che l'America ha verso la Cina è arrivato a cifre iperboliche. L'America fa le guerre e la Cina gliele finanzia.
Un'ultima cosa. Boicottare le Olimpiadi? Perché non cominciamo a boicottare gli sponsor dei Giochi?
Pechino, 31 marzo 2008. Hu Jintao durante la cerimonia di benvenuto per la fiamma olimpica consegna la fiaccola a Liu Xiang, medaglia d'oro nei 110 metri a ostacoli. (Foto di Feng Li / Getty Images)
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ieri ho letto un articolo di messner, dove giustamente diceva che non si può chiedere agli atleti di boicottare i giochi, ma sarebbe stato meglio non assegnarli alla cina, conoscendo la sua sistematica violazione dei diritti umani
RispondiEliminadetto questo vorrei scrivere sul tibet ma ancora non ci riesco
Sono d'accordo: non è giusto chiedere agli atleti di boicottare i giochi. Dovrebbero essere i Paesi partecipanti, le federazioni, i comitati olimpici, ecc. a farlo. Ma ovviamente gli interessi in gioco prevarranno.
RispondiEliminaP.S.: Alberto, mi piacerebbe linkarti tra i blog amici, se ti fa piacere.
E' verissimo quello che dici, non ci ricordiamo mai che i cinesi sono tutti oppressi.. Che i cinesi non hanno nessuan voce in capitolo sulla politica del loro governo..
RispondiEliminaQualche tempo fa ho letto un libro dal titolo " Il monaco e il filosofo" scritto dal monaco buddista Matthieu Ricard consigliere del Dalai Lama, insieme al padre,il filosofo francese Jean-François Revel, lo stesso Ricard l'ho ritrovato l'altro ieri in una intervista al Corriere della Sera in cui diceva che "Il problema del Tibet non si risolverà senza dialogo. Se le autorità internazionali davvero vogliono aiutare il Tibet,possono chiedere al capo di stato cinese di incontrare il Dalai lama come condizione indispensabile per la partecipazione alla cerimonia inaugurale dei Giochi". Riporto questa opinione perchè la condivido e la ritengo tra le più sensate a proposito di boicottaggio delle Olimpiadi.
RispondiEliminatra il dire e il fare c'è di mezzo il mare...cioè tra i bei principi sanciti dall'ONU e un suo fattivo intervento ,non solo diplomatico, perchè siano rispettati, c'è di mezzo un mare di interessi economici e timore di incidenti diplomatici con nazioni sempre più potenti...
RispondiEliminaCiao! Mi chiamo Stefano, ti va di fare scambio link, per aumentare le nostre visite ai nostri blog? Io ho due blog e ti linkerei su entrambi. Mi linkeresti i miei due blog, con i nomi a finco ai link?
RispondiEliminahttp://flo1979.splinder.com/ Il blog di Flo
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Se anche a te va bene lo scambio link, scrivimi a lookforme@libero.it, indicandomi il link e il nome che devo collegare al link!!! Ciao e grazie. Stefano
Alberto concordo con tutto quello che hai scritto, fino ad adesso uno dei migliori post che abbia letto.
RispondiEliminaMonaci o popolo del Tibet
RispondiEliminadi Enrica Collotti Pischel
La notizia della fuga dalla Cina del giovanissimo Lama Ugyen Trinley Dorje, terza autorità nella gerarchia delle reincarnazioni del buddhismo tibetano è stata ritenuta molto ghiotta dai giornali italiani e viene considerata un grave scacco per il governo cinese che non sarebbe riuscito a impedirla, nonostante il proprio apparato militare.
Quest'interpretazione ignora che i cinesi non hanno mai fatto nulla per fermare la fuga dei rappresentanti politici e religiosi tibetani dalla Cina: nel 1959 l'intera classe dirigente tibetana, con alla testa il Dalai Lama, si allontanò da Lhasa con una lunga fuga a piedi, nonostante il pattugliamento degli aerei da combattimento cinesi.
Fa parte della politica delle autorità cinesi il pensare che gli avversari è sempre meglio tenerli fuori del paese che dentro, meglio lontani dai loro adepti che vicini. Se poi le circostanze equivoche di quest'ultimo episodio - cioè la mancata condanna di Pechino - possano far pensare a ipotesi di contatti con il Dalai Lama e di trattative di conciliazione, è difficile dirlo ora.
Certamente il fatto che la grande organizzazione propagandistica che negli Stati Uniti (ma anche in Europa e nello stesso nostro scafato e realistico paese) sostiene la causa dell'indipendenza tibetana si sia buttata sull'episodio, non rende certo facile un'intesa: i cinesi sanno fare molto bene i compromessi e sono disposti a concluderli quando siano convenienti.
Ma ritengono che debbano essere cercati e raggiunti con la massima discrezione e comunque al di fuori di pressioni che li possano far apparire come una resa a pressioni straniere. E non dimentichiamo mai che "straniero" per l'intera Asia orientale nell'ultimo secolo e mezzo ha significato umiliazione e asservimento: di essa fece parte anche il tentativo pi volte condotto di staccare il Tibet dalla Cina.
Il più povero
Molte cose dovrebbero essere dette a proposito del mito del Tibet che ha preso piede, anche nei ranghi della sinistra. Dal cinematografico Shangri-la, al di fuori del tempo, dello spazio e del clima, alle ovvie seduzioni di turismo "estremo", dalle tendenze a vedere esempi validi in civiltà rimaste primitive e tagliate fuori dal processo della storia, alla sistematica disinformazione diffusa da potenti mezzi mediatici statunitensi e al fascino che sugli occidentali delusi esercitano le religioni e le ideologie esotiche ed esoteriche, tutto confluito in un'affabulazione della quale sono stati vittime in primo luogo proprio i tibetani.
Certamente sono uno dei popoli più poveri del mondo, esposti a molteplici forme di oppressione: tra esse quella cinese è stata con ogni probabilità meno gravosa di quella esercitata dai monaci e dagli aristocratici, dei quali i pastori e i contadini erano fino al 1959 "schiavi", nel senso letterale del termine, in quanto sottoposti al diritto di vita e di morte dei loro padroni.
Che poi tutti, ma con ben diverso vantaggio, trovassero conforto nel ricorso a una delle forme più degradate di buddhismo (il buddhismo tantrico tibetano popolato di fantasmi e di incantesimi ha ben poco a che vedere con la meditazione intellettuale e la creatività artistica dello Zen), si può anche comprenderlo.
Per fare un minimo di chiarezza è necessario comunque precisare alcune cose. Il Tibet non è stato "conquistato dalla Cina comunista nel 1950": dopo precedenti più discontinui rapporti, fu conquistato dall'impero cinese nella prima metà del secolo XVIII, e da allora è stato considerato parte dello stato cinese da tutti i governi della Cina, anche dal Guomindang.
La Cina (in cinese "Stato del Centro") è stato ed è uno Stato multietnico nel quale è in corso da millenni un processo di trasferimenti di gruppi etnici e soprattutto di fusione dei gruppi periferici entro quello più importante, che rappresenta nove decimi dei cinesi ed è sempre stato capace di offrire ai suoi membri una maggiore prosperità e i benefici di una cultura più concreta.
Mettere in discussione la natura multietnica della civiltà e dello Stato cinesi significherebbe mettere in moto la più spaventosa catastrofe degli ultimi secoli. Quella praticata dalla Cina non è mai stata una politica di "pulizia etnica", bensì di fusione entro un insieme non etnico ma contraddistinto da una comune cultura e da comuni pratiche produttive: più che sterminarle, i cinesi hanno comprato le minoranze.
E' vero che i tibetani per ragioni geografiche sono, entro lo "Stato del Centro", il gruppo più lontano dalla comune cultura, però da 250 anni sono stati sempre governati da funzionari cinesi nominati dal governo centrale: giuridicamente e istituzionalmente ciò ha un senso. Gli inglesi, all'apice del loro potere sull'India all'inizio del secolo XX, intrapresero, tuttavia, una serie di manovre per staccare il Tibet dalla Cina e porlo sotto la loro influenza, giungendo, nel 1913, a convocare una conferenza a Simla nella quale le autorità tibetane cedettero vasti territori all'India britannica.
Nessun governo cinese ha mai accettato la validità di quella conferenza. Nel periodo precedente il 1949 il governo del Guomindang considerava il Tibet, a pieno diritto, parte del proprio territorio, tanto che durante la Seconda guerra mondiale concedeva il diritto di sorvolo agli aerei alleati.
Il ruolo della Cia
Non ha quindi alcun senso dire che la Cina conquistò il Tibet nel 1950; nel 1950 le forze di Mao completarono in Tibet il controllo sul territorio cinese; nel 1951 fu raggiunto un accordo con il Dalai Lama per la concessione di un regime di autonomia. Verso il 1957, nel pieno dell'assedio statunitense alla Cina, i servizi segreti inglesi e americani fomentarono una rivolta dei gruppi di tibetani arroccati sulle montagne delle regioni cinesi del Sichuan e dello Yunnan, lungo la strada che dalla Cina porta al Tibet.
I cinesi repressero certamente la rivolta con pugno di ferro: nelle circostanze internazionali nelle quali si trovavano e nel loro contesto etnico non era razionale pensare che si comportassero diversamente. Alla fine del 1958 i servizi segreti inglesi annunciarono che, all'inizio del 1959, la rivolta si sarebbe trasferita a Lhasa e avrebbe cercato l'appoggio del Dalai Lama. Ed è infatti ciò che avvenne: sullo sfondo della rivolta, il Dalai Lama dichiarò decaduto l'accordo per il regime autonomo e fuggì con la maggioranza della classe dirigente tibetana in India, dove costituì un proprio governo in esilio e il proprio centro di propaganda.
Nessun governo al mondo ha riconosciuto questa compagine. Recentemente la Cia (i servizi segreti americani sono infatti obbligati a rendicontare prima o poi le loro spese di fronte ai contribuenti) ha ammesso di avere finanziato tutta l'operazione della rivolta tibetana.
Pechino: autonomia no
Dopo il 1959 il governo cinese spossessò monasteri e aristocratici e "liberò gli schiavi", iniziando una politica di modernizzazione forzosa (vaccinazioni, costruzione di opere pubbliche) e di formazione di una classe dirigente locale, figlia di schiavi, sottoposta a un bombardamento educativo razionalista e anti-religioso. Furono questi giovani che durante la rivoluzione culturale distrussero templi e monasteri.
Dopo la morte di Mao, i governanti cinesi hanno cercato di ristabilire i rapporti con i tibetani, migliorando le sorti economiche dell'altipiano ma importando anche gran numero di cinesi, non solo militari. Hanno anche trattato indirettamente con il Dalai Lama, che - politico asiatico molto scaltro - non chiede l'indipendenza, ma una più o meno larga autonomia: Pechino non ha mai tuttavia voluto concedere un reale autogoverno, che aprirebbe rischi di secessione e metterebbe in discussione tutti i rapporti etnici del vasto paese. Alle spalle del Dalai Lama si è sviluppato, intanto, un vasto insieme di interessi della classe dirigente tibetana che ormai è nata all'estero e vi ha ricevuto una formazione culturale moderna: è questa che chiede un'indipendenza che potrebbe essere ottenuta solo con una guerra spietata alla Cina e potrebbe essere innestata dal reclutamento di giovani guerriglieri in India - segnali "terroristici" in questo senso ci sono già stati.
Devo ammettere che una risatina beffarda me l'ho fatta anche io ieri sera quando ho visto quello che è successo in Francia al passaggio della Torcia.
RispondiElimina"LA FRANCIA NON HA PROTETTO IL SACRO FUOCO OLIMPICO" tuonano oggi i giornali cinesi, accusando il mondo intero di una congiura nei suoi confronti.
In fondo in fondo, la Cina ha ragione e fa bene a difendersi come può da questa ondata di diffamazione mediatica piovuta da ogni dove.
Possiamo dare la colpa di tutto questo a Hu Jintao, possiamo citare il non rispetto dei diritti umani e tutti i "soliti" luoghi comuni, le leggende, diffamazioni o mezze verità riguardanti l'Impero di Mezzo solo quando ci fa comodo..
POSSIAMO BUTTARE QUANTA MERDA VOGLIAMO ADDOSSO ALLA CINA, esaltandoci con slogan e striscioni di cui non conosciamo la storia, lo stato attuale e le ragioni.
Onestamente sono inorridito da tanta ipocrisia mostrata da noi occidentali, come se - svegliàti nel mezzo di un letargo - solo ora ci rendessimo conto della situazione politica e sociale che versa in Cina da almeno cinquant'anni.
Noi che nel 2001 non abbiamo mosso un dito alla candidatura e successiva elezione di Pechino per i giochi olimpici estivi, noi che in silenzio abbiamo lasciato fare, costruire e pubblicizzare le Olimpiadi più grandiose della storia, noi che sappiamo "accusare" e "criminalizzare" solo quando ci conviene...
Noi ORA dovremmo restare in silenzio, bruciare quelle bandiere tibetane che non abbiamo avuto il CORAGGIO - semmai - di sventolare in precedenza e applaudire alla Cina nella speranza di un continuo miglioramento delle condizioni sociali nei prossimi anni.
Grazie Michele per il tuo intervento direttamente dalla Cina. Visto che sei là ti verrò a trovare spesso.
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